Le opere di Giuseppe Verdi a Bologna (1843 1901). Con un’appendice su Bologna e la morte di Giuseppe Verdi, Lucca, Lim 2001, LX, 471 pp.

Recensione di Piero Mioli, in Rassegna musicale italiana, VII, 21, 2001-2002, p.45

La documentazione verdiana è sterminata, coeva o susseguente che sia all’avvento trionfale del maestro, e difficilmente si potrà trovare quella antica ripubblicata modernamente (lo stesso epistolario, come si sa, è ben lungi dall’essere tutto disponibile). Ma Le opere di Giuseppe Verdi a Bologna (1843-1901) è un libro che fa eccezione, avendo il coraggio di raccogliere e ristampare gran parte del materiale recensorio che accolse il teatro di Verdi al Teatro Comunale di Bologna; e mentre illustra le condizioni della cultura, dello spettacolo, della musica in una delle più reputate piazze italiane aiuta anche a comprendere le caratteristiche e le fasi generali del grande fenomeno. All’epoca Bologna leggeva ben sei quotidiani e due settimanali d’argomento musicale (intitolati, questi, “Teatri Arti e Letteratura” e “L’Arpa”), che si ingegnavano di annunciare, presentare, festeggiare, esaminare analiticamente ogni spettacolo d’opera: di qui i circa 500 articoli che costituiscono il volume, fra quel Nabucco che nel 1843 introdusse in città il nome di Verdi al 1901, l’anno della morte, per un totale di circa 70 allestimenti. Due anni dopo quel buon Nabucco, furono I due Foscari e I lombardi alla prima crociata a dare il via alle polemiche e quindi a segnare la realtà di un successo inarrestabile. Altre tappe essenziali furono le rappresentazioni di Viscardello (leggi Rigoletto) e del Trovatore negli anni ’52-53, presto seguite da quelle della Traviata del ’55: conseguenza dei trionfi (e delle polemiche) fu un’annata, quella del ’56, che di Verdi arrivò a squadernare ben sei opere. Un’altra tappa fu la prima italiana del Don Carlos, nel ’67. che fruttò a Verdi l’aggregazione alla prestigiosa Accademia Filarmonica. Ma nel’71 giunse il Lohengrin di Wagner, e la stessa fortuna di Verdi prese a oscurarsi un po’, tanto che fra quel’71 e l’88 il Comunale mise in scena solo quattro lavori verdiani. E così via, dalla storia della fortuna di Verdi alla cronistoria delle rappresentazioni bolognesi puntualmente rammentate da questa provvida e generosa antologia. Retorica a volte (come a ridosso della Messa da requiem), spesso interessata più agli interpreti che alla musica stessa, quasi sempre scritta a fior di penna, la critica giornalistica in questione non di rado è in grado di discutere problemi estetici, come quello del rapporto tra Verdi e la tradizione operistica italiana: nell’autunno del 1845 il “soverchio fragore”, il “sopraccarico di forza vocale e strumentale”, il “barbarico lusso strumentale” scatenarono una polemica che chiamò in causa la gentilezza, la misura, il buongusto di Rossini e di Bellini e dei precedenti Paisiello e Cimarosa, che fece discettare di arte e di scienza, che addirittura fece scrivere come Verdi avesse ingegno ma non fosse un genio o che di tanta “verdura” ormai ci si potesse anche stancare. Per 471 pagine si protrae la copiosa antologia edita dalla LIM nel 2001, che nonostante le pur belle apparenze locali riveste un notevole significato generale. Se le maggiori città d’Italia e del mondo disponessero tutte di regesti simili, la musicologia verdiana ne sarebbe molto avvantaggiata.

Piero Mioli

 

 

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