Celibidache e Bologna, a cura di Luigi Girati e Luigi Verdi, Prefazione di Silvia Gajani, Bologna, Forni 2004, 217 pp.

Recensione di Piero Mioli, in Musica e Scuola,
XIX, 9, 2005, p.16.

La storia dell’interpretazione è un capitolo della storiografia musicale quantitativamente ancora piuttosto scarso: quando sarà avviato in maniera sistematica, allora serviranno tutte le cronologie, le raccolte di materiali, le antologie critiche possibili; e in materia di direzione d’orchestra servirà molto questo Celibidache a Bologna che Luigi Girati e Luigi Verdi hanno curato per l’editore Forni di S. Agata Bolognese (2004). Grande, elegante, illustrato con sobrietà e gusto, il volume consta di varie parti, tutte a più mani, che trattano dei rapporti dell’eccellente direttore romeno (1912- 1996) con la città di Bologna e il Teatro Comunale dove ha operato a lungo, e di alcuni elementi caratteristici della sua arte; poi pubblica un paio di vecchie interviste e numerose testimonianze di professori d’orchestra, allievi ed estimatori; infine fornisce gli utilissimi apparati di tavole, rassegne-stampa, repertori e così via di cui sopra. E anche se manca di un preciso e obiettivo discorso critico che inserisca l’artista nel maggior contesto direttoriale del secolo (Toscanini, Furtwängler, Walter, Klemperer, Karajan, Giulini, Bernstein, Abbado), riesce comunque a schizzare un ritratto vivace e pertinente del sommo concertatore e dell’uomo notoriamente non facile. “Direttore o compositore?”, si chiede, infatti, Mario Baroni nel suo intervento, e la domanda è proprio un giusto e “molto raro complimento”, per dirla con la Madama Butterfly di Puccini. Il saggio di Tito Gotti, infine, gronda di espressioni sempre pregnanti e significative: in Celibidache i “celebri rigori”, la “conclamata ferocia censoria”, le “inesorabili condanne”, il “virtuosismo della squalifica e della demolizione” (invero “un po’ levantino”), il “distruttivo anatema” sono gli aspetti esteriori di un “insegnamento universale perché debordante ogni frontiera della disciplina musicale”, di una “sterminata cultura che sposava l’umanesimo alla scienza”, di una “ferrea compattezza della concezione analitico-operativa”, una “miracolosa tecnica”, magari mediante la “beata tracimazione di una dovizia comunicativa” formidabile e il “fluire di un verbo irresistibilmente espansivo”.

Piero Mioli

 

 

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